sabato 29 marzo 2008

"Rieducare i dissidenti". Possiamo ancora accettare simili parole nel 2008?

Riporto un pezzo tratto dal blog di Federico Rampini su Repubblica.it.
Per i monaci buddisti tibetani catturati nelle retate di questi giorni comincia un’odissea tristemente nota, la deportazione nei lager cinesi. E’ il trattamento che il regime di Pechino riserva ai seguaci del Dalai Lama dagli anni Cinquanta: lavori forzati, sedute di rieducazione politica cioè lavaggio del cervello, indottrinamento patriottico, umiliazioni e spesso torture. Generazioni di monaci sono passate attraverso queste sofferenze, molti ne sono morti, senza che la Repubblica popolare riuscisse a piegare la resistenza del popolo tibetano. Ma Pechino insiste con i metodi di sempre. Lo ha rivelato il professor Dramdul del Centro di ricerca tibetologica, un pensatoio di regime che si occupa “scientificamente” della questione tibetana per conto del partito comunista. “Rilanciare l’educazione patriottica è necessario – ha detto l’esponente del regime – perché la cricca del Dalai Lama ha manovrato per sabotare lo sviluppo del Tibet e il buddismo tibetano. L’educazione dei monaci serve a contrastare l’influenza di piccoli gruppi secessionisti che tramano dall’estero”. La nuova ondata di deportazioni dei monaci nei laogai viene annunciata insieme con un aggiornamento del bollettino di guerra nelle operazioni contro i ribelli tibetani. Secondo le cifre ufficiali fornite dal governo cinese salgono a 660 i rivoltosi che si sarebbero “arresi alle autorità”, e che saranno giudicati per le violenze avvenute durante la più grande rivolta tibetana degli ultimi vent’anni. Il bilancio delle vittime è stato aggiornato a 19 morti da parte cinese, mentre il governo tibetano in esilio parla di 140 uccisi dalle forze dell’ordine. La polizia a Lhasa ha anche diffuso una nuova lista di 53 “super-ricercati” sui quali è stata posta una taglia. E’ arrivato a Lhasa un gruppo di 26 giornalisti stranieri selezionati dal governo di Pechino, scortati e sorvegliati da funzionari del ministero degli Esteri. E’ la prima volta che dei reporter stranieri vengono ammessi in Tibet dopo l’esplosione dei disordini del 14 marzo. Un cronista dell’Associated Press ha descritto le condizioni particolari in cui si è svolto il loro arrivo e la visita collettiva. “L’autobus dall’aeroporto a Lhasa andava volutamente lentissimo nonostante le nostre proteste. Abbiamo passato tre posti di blocco. Un ufficiale ha spiegato che stavano fermando gli automobilisti solo per controllare eccessi di velocità, infrazioni al codice della strada o il mancato uso della cintura di sicurezza. Davanti agli edifici pubblici abbiamo visto polizia militare in tuta mimetica e con armi automatiche puntate, in stato di massima allerta. Ci hanno portati in visita a una clinica bruciata durante le proteste. La sera i nostri accompagnatori ci hanno sconsigliato di uscire dall’albergo e ci hanno chiesto di informarli su ogni nostro movimento”. Il ministero degli Esteri ha rifiutato di rispondere alle nostre domande sui criteri con cui sono stati selezionati i giornalisti stranieri per la visita “guidata” a Lhasa. Il Foreign Correspondents’ Club of China, l’associazione della stampa estera, ha denunciato questa “visita breve e sotto massima sorveglianza” come un tradimento degli impegni formali presi da Pechino quando si candidò a ospitare le Olimpiadi. L’associazione ha elencato “più di 40 violazioni degli impegni sulla libertà di circolazione”, ha denunciato “varie forme di intimidazione dei giornalisti”, ha chiesto al governo cinese di “permettere a tutti gli altri giornalisti stranieri di viaggiare in Tibet senza interferenze”. I diplomatici non sono trattati meglio di noi. L’Australia, il cui governo laburista ha ottime relazioni con la Repubblica popolare, ha presentato una richiesta formale perché un gruppo di diplomatici stranieri possano andare in Tibet come osservatori indipendenti. La richiesta è stata respinta da Pechino con la giustificazione che il governo cinese non vuole mettere a repentaglio “la sicurezza degli stranieri”.

lunedì 17 marzo 2008

domenica 16 marzo 2008

Free Tibet









Aggiungo due cose.

1) Sono schifato ancora una volta da questo papa che preferisce fare affari (di anime) con la cina e non nominare nemmeno il genocidio tibetano.

2) ho aderito alla petizione di Reporters sans Frontieres. Fallo anche tu a questo link








sabato 15 marzo 2008

FERMIAMO LA CINA

Era da qualche giorno che provavo una certa inquietudine nel vedere le notizie che giungevano dal Tibet. Oggi mi si è stretto il cuore. La repressione cinese è scoppiata violentissima e già si parla di morti ed arresti. I luoghi visitati la scorsa estate, il sacro Jokhang, sono immortalati tra le fiamme delle macchine rovesciate. Le voci parlano di 2 morti, dei monasteri di Sera, Drepung e Ganden assediati. I monaci, quei monaci, picchiati. Il popolo tibetano, ed i buddisti in generale, sono considerati da tutti il simbolo del pacifismo. Il Dalai Lama (oceano di saggezza in tibetano) è stato insignito del Nobel per la Pace. Le immagini che ho davanti agli occhi sono di persone serene, tranquille, sempre pronte a sorridere, curiose della nostra presenza. Persone indifese, semplici, povere. Intorno a loro tanti militari e poliziotti cinesi. Avevamo notato la presenza di grandi caserme intorno ai principali monasteri ed avevamo intuito a cosa servivano. "A difendere i monaci" ci aveva detto la nostra guida tibetana. Ed aveva sorriso come sempre. Forse per l'imbarazzo di dover raccontare simili bugie. In Asia fanno così. Ho l'immagine dell'improvviso trambusto una sera lungo il Barkhor provocato da un gruppetto di tibetani che avevano creato un piccolo assembramento. La polizia si era subito mobilitata correndo e sgommando con le auto. Davanti al Jokhang. Per i tibetani è vietato riunirsi. E' vietato parlare del Dalai Lama ed avere sue immagini. E' vietato parlare del vero Panchen Lama, il più giovane prigioniero politico del mondo. Non possono ricevere stranieri in casa. Quando uscivamo da Lhasa la polizia ai check-point ci dava dei foglietti con il tempo di percorrenza sino al controllo successivo. "Per controllare la velocità" ci ha detto la guida con il solito sorriso. Questo era il Tibet "pacificato" dell'agosto scorso, saldamente sotto il controllo cinese! Ed ora come sarà? Tra le persone picchiate ed uccise ci sono anche queste? Dove sarà finito il sorriso di quei monaci, la dolcezza e la mitezza dei loro sguardi? Perchè dobbiamo assistere al genocidio di un popolo, di una cultura antichissima e piena di saggezza e fascino senza fare niente se non commuoverci e piangere lacrime di coccodrillo? Sabbiamo benissimo cosa sta succedendo e di chi è la colpa. E allora diamoci da fare. FERMIAMO LA CINA! Affermiamo il diritto del popolo tibetano a vivere nella propria terra secondo le proprie tradizioni e seguendo le convinzioni religiose, etiche e culturali che le sono proprie. Il diritto di scegliersi le proprie guide spirituali, di far tornare in patria il Dalai Lama. La libertà di espressione. Cose elementari in una democrazia ma non in Cina. BASTA. Diciamo basta alla Cina ed alle continue violazioni dei diritti umani. Fermiamo la violenza. Fermiamo la Cina.

link interessanti:
BBC news: speciale Tibet
Repubblica: intervista al Dalai Lama
Associazione Italia-Tibet