lunedì 26 maggio 2008

I falò dei tibetani

Pubblico un brano di un bell'articolo di Carlo Buldrini che ho trovato sul sito www.ItaliaTibet.org

I FALO' DEI TIBETANI di Carlo Buldrini
10 Maggio 2008
Giovedì 20 marzo, alle dieci di sera, la Central Chinese Television (Cctv), la televisione di Stato cinese, ha mostrato un filmato sulla rivolta di Lhasa di una settimana prima. Ha detto l’annunciatrice: “Il video mostra le azioni criminali – attacchi fisici alle persone, vandalismi, saccheggi e incendi – istigate dalla cricca del Dalai (Lama) nella capitale della Regione autonoma del Tibet”. Il filmato è durato solo 15 minuti. Vi si vedevano tibetani - laici e qualche monaco - assaltare i negozi dei cinesi: saracinesche divelte, vetrine sfondate. Erano scene già viste in altre parti del mondo. Nel 2005, anche nella New Orleans affogata nelle acque dell’uragano Katrina, i negozi erano stati presi d’assalto e saccheggiati. Ancor prima, nel 1992, quando a Los Angeles i poliziotti che avevano pestato l’uomo di colore Rodney King erano stati assolti, la rabbia dei neri scatenò una guerriglia urbana che portò al saccheggio di tanti negozi. Non molti anni fa scene analoghe si sono viste ad Abidjan, nella Costa d’Avorio, e in tante altre parti del mondo. Ma, con il procedere del filmato della Central Chinese Television, si assisteva a qualcosa di nuovo. Le immagini non mostravano la solita folla eccitata fuggire carica di scatoloni di cose rubate. A Lhasa, la merce dei negozi saccheggiati era prima portata in strada. Poi, dopo averla meticolosamente ammonticchiata sul marciapiede di fronte al negozio, i tibetani la davano alle fiamme. Da 49 anni, dalla fuga del Dalai Lama in India, gli abitanti del Tibet sono senza una guida politica. Per loro, quel dar fuoco alla merce dei negozi cinesi era una precisa presa di posizione politica. Con tutta evidenza non si è trattato di un caso di non violenza gandhiana. Eppure, proprio quelle fiamme, hanno ricordato i falò che il Mahatma Gandhi organizzò in India negli anni Venti, quando vennero bruciati in strada i vestiti prodotti dalle industrie tessili inglesi del Lancashire. Sari, giacche, camicie fatte con tessuti pregiati vennero dati alle fiamme nelle strade di Bombay dagli indiani che chiedevano l’indipendenza.
Chi ha visitato più volte la capitale del Tibet negli ultimi 15 anni ha potuto osservare dappertutto i segni del progresso. Grandi strade perfettamente asfaltate, nuovi quartieri residenziali, edifici pubblici dalle forme avveniristiche, shopping mall pieni di radio, televisori, orologi al quarzo, ventilatori, telefoni cellulari e lavatrici. Il 14 marzo 2008, dando fuoco a quella merce, i tibetani hanno detto che quel tipo di sviluppo a loro non interessa. Perché si tratta di un “progresso” che non permette la libertà spirituale e minaccia di far scomparire per sempre la loro cultura e il loro tradizionale modo di vivere. C’era dunque un’analogia tra i falò di Lhasa e i “bonfires” di Gandhi degli anni Venti. Chi invece si è ispirato esplicitamente all’azione del Mahatma Gandhi sono stati i giovani tibetani della diaspora, con i militanti del Tibetan Youth Congress in testa. Il 10 marzo è partita da Dharamsala, in India, la Marcia del ritorno in Tibet. “A ispirarci è stata la Marcia del sale di Gandhi e dei suoi satyagrahi del 1930” hanno detto i leader delle cinque ong che hanno dato vita all’iniziativa. La marcia non ha avuto vita facile. Il 13 marzo è stata fermata dalla polizia indiana che ha arrestato tutti i cento marciatori tibetani. Il 15 marzo la marcia è ripartita. I nuovi marciatori erano una cinquantina e tra loro si contavano molti monaci e molte monache. Nuovo stop il 23 marzo. A fermare i marciatori questa volta è stato un “Comitato d’emergenza” costituito dal governo tibetano in esilio per far fronte alla gravissima situazione creatasi in Tibet. Il 18 aprile è iniziata la “terza fase” della marcia. I marciatori sono adesso più di 250. Alla testa del nutrito drappello c’è un’immagine a colori del Mahatma Gandhi. E così come il Mahatma, raccogliendo una manciata di sale sulla riva del Mare Arabico, lanciò la sfida all’impero britannico, altrettanto vogliono fare i giovani militanti nei confronti della Cina quando cercheranno di entrare nel Paese delle nevi. Molti di questi giovani non hanno mai messo piede nel loro paese. Quando arriveranno al confine tra l’India e il Tibet, molto probabilmente troveranno ad accoglierli i fucili spianati dell’Esercito popolare di liberazione cinese. I tibetani risponderanno con la non violenza.
Il 24 aprile Tsewang Rigzin, il presidente del Tibetan Youth Congress, ha tenuto a Dharamsala una conferenza stampa. Ha smentito una presunta intervista da lui rilasciata al Corriere della Sera e pubblicata in data 27 marzo. “La non violenza? Non paga. Potremmo usare i kamikaze” aveva titolato il giornale italiano. Nel corso della conferenza stampa Rigzin ha detto di non avere mai pronunciato quelle parole. “Nei suoi 38 anni di vita, il Tibetan Youth Congress si è sempre battuto per l’indipendenza del Tibet. Le nostre armi sono sempre state la verità storica e la lotta non violenta. Mai abbiamo mai fatto ricorso ad azioni terroristiche o ad attacchi suicidi per raggiungere il nostro obiettivo e cioè l’indipendenza del Tibet” ha detto Tsewang Rigzin. E’ infatti solo con la non violenza gandhiana che il Tibet può sperare di essere un giorno liberato. E’ impensabile che i tibetani possano combattere contro l’esercito più numeroso del mondo: sei milioni di tibetani contro un miliardo e 300 milioni di cinesi han, accecati da quell’ideologia nazionalista che la propaganda del regime comunista propina loro a piene mani. Il ricorso alla violenza sarebbe per i tibetani un suicidio. Anche per loro vale quanto Gandhi disse nel villaggio di Dandi al termine della Marcia del sale. Rivolgendosi ai giornalisti stranieri presenti, il Mahatma chiese il sostegno del mondo intero per quella che definì “the battle of Right against Might”, la lotta della giustizia contro la forza. La stessa cosa vale anche per i tibetani. La loro vittoria non potrà mai essere militare. O sarà “morale” o non sarà (.....)

Quando, nel dicembre 2007, il Dalai Lama è venuto per dodici giorni in visita in Italia, il presidente del Consiglio Romano Prodi si è rifiutato di riceverlo adducendo niente meno che la “ragion di Stato”. Altrettanto fecero Massimo D’Alema e Francesco Rutelli. C’è da augurarsi che, nell’affrontare la tragedia tibetana, il nuovo governo italiano assuma un atteggiamento diverso. Un primo piccolo passo in avanti non sarebbe difficile da compiere. Invece di limitarsi a chiedere, con il solito vuoto rituale, la ripresa del dialogo tra il Dalai Lama e Pechino, il nuovo governo potrebbe cercare di convincere i partner europei a legare la propria partecipazione alla cerimonia d’apertura delle prossime Olimpiadi all’inizio di un concreto negoziato tra il Dalai Lama e il governo cinese. “Negoziato” non “dialogo”. Nel linguaggio diplomatico le parole contano.

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